Torino, settembre 1864. A fronte di una manifestazione di piazza conseguente all’annunciato trasferimento, da Torino a Firenze, della capitale del Regno d’Italia, la polizia spara sui dimostranti.
Il risultato è tragico: 55 morti e almeno 133 feriti.
Un’inchiesta municipale, ordinata dal sindaco di Torino, ha accertato i fatti raccogliendo oltre sessanta testimonianze, documentando come la strage sia il frutto di una gestione autoritaria e inetta dell’ordine pubblico, affidata a forze di polizia e allievi carabinieri, mandati a fronteggiare una manifestazione di cittadini del tutto disarmati, che protestavano contro quello che ritenevano una provocazione, prima ancora che un sopruso.
In effetti, già nel 1861, vivente Cavour, con la proclamazione del Regno d’Italia era stato definito che la capitale d’Italia sarebbe stata Roma, quando ciò sarebbe diventato possibile, operando non con azioni di forza ma facendo opera di convinzione.
Che Torino fosse la capitale provvisoria d’Italia era dunque stabilito per legge, accettato come tale da tutti i piemontesi.
A tre anni di distanza dall’unificazione, il governo italiano, la cui componente piemontese è ormai del tutto marginale, si trova in gravi difficoltà, sia finanziarie sia di ordine pubblico, per cui è indotto a cercare un diversivo sollevando la cosiddetta “questione romana”.
In un contesto di crescente “anti piemontesismo”, che si contrappone al “piemontesismo” inteso come causa di tutti i problemi che l’unificazione di un paese così eterogeneo comporta, il governo pensa di trovare una soluzione spostando la capitale da Torino, senza tuttavia andare a Roma, come già deliberato.
Tutto questo, viene definito con la Convenzione del 15 settembre, con la quale la Francia si impegna a ritirare le sue truppe da Roma, a fronte dell’impegno dell’Italia a garantire la sicurezza dello Stato Pontificio.
Ma a questa Convenzione si aggiunge una clausola che il Re ha voluto segreta: entro sei mesi, la capitale deve essere trasferita da Torino a Firenze.
L’emergere, già dal 17 settembre di questa clausola sul trasferimento della capitale, a Firenze non a Roma, è stata la causa scatenante delle manifestazioni di piazza del 20 – 21 – 22 settembre.
Alle pacifiche manifestazioni di cittadini armati solo della loro rabbia per il modo in cui veniva presentata e giustificata una decisione avente un così grave impatto economico su Torino e sul Piemonte, il governo risponde con un crescendo di violenza che, in tre successivi episodi, porta alla fine a contare 55 morti e almeno 133 feriti, tutti tra i manifestanti, con la sola eccezione di tre soldati, uccisi anche loro dal fuoco incrociato di polizia e allievi carabinieri.
Da subito il Ministero dell’Interno avvia un’azione di disinformazione tendente a giustificare la strage come legittima difesa dei militari di fronte alla violenza dei dimostranti. Cosa totalmente falsa, come dimostrarono le successive indagini municipale e parlamentare.
L’indagine amministrativa, condotta su incarico del Consiglio comunale di Torino, conferito al consigliere e deputato Casimiro Ara, si caratterizza per la sua tempestività e oggettività: ricevuto l’incarico il 21 settembre, la relazione viene consegnata il 5 ottobre, corredata di 63 testimonianze di cittadini torinesi in vario modo coinvolti negli avvenimenti oggetto di indagine.
Dall’indagine amministrativa di Casimiro Ara emerge chiaramente la responsabilità del governo per i tragici eventi, frutto di inettitudine oltre che di ingiustificata ferocia.
La versione integrale della Relazione conclusiva e relative testimonianze sono qui liberamente consultabili.
Segue quindi, a distanza di pochi mesi, un’indagine parlamentare, affidata ad una commissione composta da nove deputati.
La relazione conclusiva, presentata al Parlamento il 5 gennaio 1865, conferma nella sua sostanza oggettiva quanto emerso dall’inchiesta amministrativa del Comune, salvo dare spazio a voci diverse, avendo, come obiettivo dichiarato, quello di verificare se potevano esserci motivi per un’azione di responsabilità nei confronti dei ministri in carica nei giorni della strage.
Si arriva così al 23 gennaio 1865, quando la Camera dei deputati avvia la discussione sulla relazione della commissione d’inchiesta parlamentare.
Ma la discussione alla Camera si apre con una pregiudiziale del deputato Bettino Ricasoli il quale, invocando ragioni di concordia nazionale e l’urgenza di legiferare su cose più importanti, chiede alla Camera di non discutere la Relazione dell’inchiesta parlamentare.
Dopo ampia discussione, dove le ragioni contrarie di alcuni deputati piemontesi si contrappongono all’enfasi retorica di chi vuole coprire le responsabilità della strage, il Parlamento approva, a larga maggioranza, di non procedere alla discussione della relazione, con ciò rinunciando ad ogni accertamento di responsabilità da parte dei ministri in carica nei giorni delle stragi.
Alle stesse conclusioni arrivarono poi le inchieste della magistratura ordinaria e della magistratura militare: nessuno è colpevole, nessuno è condannato.
A fronte di questo epilogo, per una tragedia che ha colpito così duramente tanti cittadini, è facile immaginare quale possa essere lo stato d’animo dei torinesi nei confronti di uno Stato sentito come estraneo, lontano, se non nemico.
Questo stato d’animo ha occasione di manifestarsi il 30 gennaio 1865, quando a Palazzo Reale viene organizzato il ballo di carnevale, a cui è invitata la nobiltà, le alte gerarchie dello Stato ed il corpo diplomatico.
I membri del Consiglio comunale di Torino, non partecipano al ballo, mentre una manifestazione di piazza rende difficile l’accesso alle carrozze dei molti invitati che al ballo partecipano.
Il re Vittorio Emanuele, ritenendo questo un affronto personale, pretende le scuse formali della città di Torino.
Non avendole ottenute, il 7 febbraio 1865, il re, con alcuni suoi ministri, lascia Torino per Firenze, rendendo così operativo il trasferimento della capitale.
Per il Piemonte è la fine, tragica, di un’epoca di grandi speranze e di forte impegno per l’unità dell’Italia.